Kaiser Zoncolan
In compagnia di Andrea Masi, mio abituale compagno di "bricchi", abbiamo stabilito, alla metà di maggio 2002, di provare sensazioni estreme e quindi scalare "il Kaiser", come lo chiamano i cicloamatori stanziali. Solita, intensa e scrupolosa preparazione logistico-strategica, soliti contatti con amici e conoscenti vari, solito allenamento orientato su salite con gradi di difficoltà molto elevati. Ad eccezione dell'ultima settimana, nella quale, volutamente, abbiamo scelto percorsi che consentissero sufficiente scarico e recupero. Abbiamo quindi individuato il "campo base". Scelta certamente non facile, in quanto la distanza di questa località dall'attacco della salita, deve consentire un sufficiente allenamento preliminare e un riscaldamento quanto mai necessario, quando si parla di "muri" al 20%. La scelta è caduta sulla "Antica Trattoria Cimenti", a Villa Santina, un paese a una quindicina di chilometri da Ovaro. E' questo il nome del borgo dal quale si attacca la parte più dura della salita. Dal versante est, quello opposto, la partenza è dal paese di Sutrio: lunghezza 12,5 Km. e difficoltà leggermente inferiore.
Per chi non avesse capito siamo in Carnia, non molto lontano dal confine con l'Austria e la Slovenia, a circa 450 Km. da Pistoia, sulla direttrice Bologna, Verona, Udine, Tarvisio. Nei mesi precedenti abbiamo avuto modo di leggere numerosi articoli e contributi scritti sull'impresa che ci siamo decisi ad affrontare. L'esperienza di Prada Alta ci ha ormai "vaccinato" sul tipo di approccio e sulla giusta tensione mentale da tenere. Ci siamo convinti che dopo quella esperienza niente avrebbe più potuto spaventarci e intimorirci oltre misura. Almeno fino a prova contraria. La decisione di usare gli stessi rapporti (28-29x39), conferma il concetto che, pur nel rispetto assoluto della montagna in questione, possiamo stare abbastanza tranquilli. Venerdì 17 maggio (ottima data, non vi pare?) partiamo, carichi di biciclette, bagagli e tanto entusiasmo.
Viaggio di 5 ore circa, a causa di un maxi-ingorgo sulla tangenziale di Venezia, che ci rallenta di circa 1 ora sulla tabella di marcia. Per il ritorno, infatti, sono state sufficienti 4 ore. L’albergo si presenta subito attraente, e già nella hall, dopo i “preliminari burocratici”, avvertiamo quella classe e quella cura dei particolari che contraddistinguono i locali di ottimo livello. Quando poi entriamo in camera, ci rendiamo conto che il titolare ci ha riservato un intero miniappartamento a testa, composto da ingresso, camera, bagno e angolo cottura. Il balcone guarda le montagne che l’indomani ci avrebbero visto protagonisti.
Cena leggera ma raffinata, poco vino, passeggiata digestiva e… a letto alle 10.30, per radunare le forze fisiche e mentali in vista dell’impegno del giorno dopo.
Notte trascorsa alla meglio, buona colazione alle 7.15, assemblaggio delle biciclette, vestizione e via a riscaldare i muscoli. Per pedalare cerchiamo e troviamo una stradina parallela alla statale, a quell’ora molto transitata e quindi assai pericolosa. Il cielo è azzurro, l’aria fresca ma non fredda, i campi assomigliano a macchie sulla tavolozza di un pittore, tanti sono i colori e le sfumature davanti ai nostri occhi. E’ tutto straordinariamente bello e rilassante e questa sorta di paesaggio bucolico ci permette per un po’ di non pensare a quello che ci aspetta! I minuti passano, le lancette girano e ci decidiamo ad avvicinarci al fatidico bivio: Monte Zoncolan, 1750 metri. L’altimetro che abbiamo montato sulla bici, segna 530m., per cui dovremo superare un dislivello di 1220m. in 10 Km e mezzo. Il calcolo è presto fatto: la pendenza media è del 11.50%, ma sappiamo a memoria che ci attendono tratti al 19/20 e anche 21%. Il chilometro abbondante che ci porta al paese di Liiaris, roba al 8/9%, ci sveglia bruscamente: fine del sogno! La dura realtà corre ormai sotto le nostre ruote. Una scuola, un prato e alcuni bambini che fanno ricreazione. Ci guardano come marziani: evidentemente c’è qualcosa che non va nella direzione che abbiamo scelto... Due anziani, appoggiati sul muro di una casa, ci scrutano e ci apostrofano ridendo: “…e ora scendere e spingere!!!” Ridiamo anche noi, forse per esorcizzare il momento e sdrammatizzare quello che pare proprio materializzarsi davanti a noi: l’attacco vero del mitico Zoncolan. Da subito pendenze da brivido:15/16%, per 2, 3, 4 km. che sembrano non finire mai. In questi casi un cicloamatore alza lo sguardo implorante verso la fine della “tirata”, alla stregua di un sommozzatore che cerca di ripescare aria dopo una immersione durata troppo a lungo. Lo sguardo incerto indaga la pendenza della strada e cerca di scoprire, come si fa a poker “stillando” le carte, se il dopo è un po’ meglio del prima e del durante, o, in altre parole, …di che morte dobbiamo morire! I brevissimi tornanti fra una tirata e l’altra non ci danno nemmeno il tempo di bere un sorso d’acqua, e la “menata” successiva si innesta nel prosieguo infinito del nostro calvario. Non si sa più dove guardare. L’andatura, specialmente per me, che soffro ancora per un vecchio dolore al tendine rotuleo, non posso alzarmi sui pedali, oscilla fra i 5 e i 6 Km. all’ora, e non mi resta quindi che ondeggiare e zigzagare sulla strada, aggiungendo così decine e decine di metri al già lungo e faticoso percorso. Conto i sassi lungo la strada e mi accorgo che il contare mi aiuta a tenere un certo ritmo, una andatura cadenzata e regolare. Conto fino a 100. Poi ricomincio, e ancora, ancora fino a 100. Quante volte… non lo so. So però che così riesco a guadagnare la cima delle tirate e quindi dei tornanti. Il mio amico Andrea, come del resto già sul Prada Alta, mi ha lasciato solo da tempo, ma non certo per “cannibalismo” o “sadismo cicloamatoriale”, bensì per rispettare un patto condiviso che all’inizio delle salite ci siamo dati: ognuno con la propria andatura, ognuno del proprio passo. Per me, in questi casi, è meglio non vedere nessuno davanti, nessuno da inseguire o da tentare di raggiungere. Il ciclista vero, quello amante della montagna, è solo, e come dice Gianni Bugno “…questa solitudine ti aiuta a diventare uomo, ti fa scoprire aspetti del tuo carattere che non potresti mai indagare in compagnia di altri corridori.“ Per lui il simbolo di questa solitudine è Sua Maestà Stelvio, e anch’io la penso così.
Salita dura quindi, come purificazione, catarsi e metafora della vita. Quante volte provo il desiderio di scendere, di dire basta!!! In questi momenti ci si attacca a tutto pur di non cedere: una macchina che ci viene incontro in discesa ci obbliga a tenere duro per altri 100 metri; il rombo di una moto dietro di noi ci impegna per qualche altro tratto di strada; due camminatori fermi sul bordo della strada ci inducono a non cedere proprio ora: non sarebbe decoroso! Fra una tirata e l’altra guardiamo sopra di noi il bosco in “trasparenza”, cercando di scoprire così la fine della montagna, e quindi dell’agonia che abbiamo scelto. Effettivamente gli alberi si fanno più radi e ora la vegetazione si riduce a pochi arbusti e qualche cespuglio. Ad occhio (appena socchiuso per lo sforzo) e croce (pesantissima da trascinare su questo Golgota), dovremmo essere sui 1500/1600m.. La fine non deve essere lontana. Le spalle sono ormai rattrappite per lo sforzo di non mollare la piega del manubrio, e se potessi pedalerei volentieri ad occhi chiusi, per centellinare le residue energie che rimangono rinchiuse fra le pieghe dei muscoli e negli anfratti della mia nervatura ormai troppo a lungo sollecitata. Non so come, ma dopo l’ennesima tirata riesco a leggere una scritta sbiadita su un muro: 1 Km. Appena realizzato il concetto, vedo l’imbocco di una galleria, peraltro abbondantemente attesa. Come prevedevo, all’interno la strada non è asfaltata, e la terra e i sassi, a causa delle recenti piogge, si sono trasformati in una poltiglia appiccicosa. Tento di rimanere in sella ma per il buio entro in una buca e per poco non finisco a “pelle di leone”. Decido di continuare a piedi e in un certo senso benedico quella spelonca che mi permette di resuscitare. Alla fine della prima galleria, una seconda e poi una terza. Come Dante, che alla fine del Purgatorio “…riesce a riveder le stelle”, anch’io, alla fine del terzo “budello nero” rivedo la luce, e sento una voce che mi chiama. Che sia arrivata la fine e il Padreterno mi aspetti per il giudizio finale? Fortunatamente no! E’ il mio amico Andrea che, ormai in vetta da un po’, scandisce il mio nome con un misto di ansia e gioia . Mi dirà poi che, al limite della pazienza, si era messo a pregare perché spuntassi dall’ultima galleria. Gli sfilo davanti un tornante più sopra, mentre lui mi scatta quella che sarà senz’altro la foto più terrificante che potessi chiedere come ricordo dell’impresa riuscita. Ancora un paio di tornanti al 12/13% che, in queste condizioni, sembra il 20%, e finalmente il premio: un cartello che abbraccio e stringo fra me e la mia bicicletta. Vi si leggono le parole più belle che possono risuonare nelle orecchie di un appassionato di salite: Colle di Zoncolan, 1750m.
Il cuore comincia a rallentare anche se continua a rimbombarmi nei polmoni, nelle gambe e nelle braccia. Mi guardo intorno e, oltre al panorama straordinario, vedo una lapide in pietra, all’interno di un giardinetto protetto da una piccola ringhiera di ferro. Vi si legge una scritta che ci fa accapponare la pelle: “ Mauro Melani ed Andrea Masi, il 18 maggio del 2002, hanno raggiunto la vetta del Colle di Zoncolan. Dedicano questa impresa a tutti i cicloamatori che non potranno mai arrivare quassù e a tutti coloro che vivono non rinunciando a sognare!”.